Il bicchiere
- Vera Tucci

- Nov 1, 2022
- 4 min read
Ultimamente ho pensato molto al “NO” e a quanto ci pesi dirlo, rispetto al “SI”.
Spesso pensiamo che la fatica nasca soltanto quando ci viene proposto o chiesto di fare qualcosa.
Invece lo sforzo più grande lo facciamo quando obblighiamo noi stessi a dire di no.
Perché NO non è un viaggiatore solitario, ama la compagnia. E spesso sceglie quella di vulnerabilità e vergogna.
Dire di NO ci obbliga a portare alla luce le nostre vere esigenze con chi ci sta di fronte.
Le nostre radici culturali ci hanno programmato per considerare il “self love”, ovvero la capacità di mettere emotivamente al 1° posto noi stessi, come il peggiore degli egoismi; abnegarsi all’altro è l’unica misura valida del proprio valore etico e morale.
Ma cosa c’è di etico nell’auto annullarsi? Perché è a questo che ci porta il non dire mai di NO.
Quando prima di noi stessi vengono tutti gli altri, quanto resta nel nostro serbatoio per arrivare a casa sani e salvi?
Senza contare che viaggiare in riserva aggiunge una carica di stress e frustrazione al viaggio che ci impedisce di goderci anche solo un secondo del paesaggio che attraversiamo.
Penso alle nostre case e alle nostre aziende, quanto beneficerebbero di un nostro No, se corredato da un motivo comprensibile (ma non una giustificazione! Non dobbiamo giustificarci con nessuno per il confine di auto protezione che disegniamo attorno a noi stessi).
Il NO prende mille facce e se per noi è importante il beneficio che segue, tanto basta: il NO fatto per non compromettere il nostro benessere psico-fisico non acquisisce valore maggiore con l’approvazione della società.
Chi può dirci cos’è il “benessere” se non la nostra voce interiore che tutto vede e tutto sa?
Per me “benessere” è un viaggio in auto ascoltando il mio album preferito 5 volte di seguito.
È un pomeriggio di lavoro senza interruzioni.
È un venerdì libero, perché si.
È fare la spesa con gli airpods a tutto volume (si, sempre con lo stesso album).
È una camminata in collina in cerca di un autunno timido.
È una riunione con il gruppo direttivo, in presenza, una lavagna bianca e 5 pennarelli pronti a tenere traccia dei nostri piani.
È il segno di spunta sull’ultimo elemento della mia To Do list settimanale il venerdì sera prima di spegnere il pc.
È un collega giovane che si ferma sull’uscio del mio ufficio e i 10 minuti di chiacchierate che ne seguono.
È potermi dedicare a ciò a cui tengo senza senso di colpa.
È il senso di padronanza del mio tempo.
È il sentire che non tutto, non sempre, non per tutto, è in mano agli eventi.
Se per fare anche solo una di queste cose il “prezzo” da pagare è dire NO a qualcuno, farò in modo di pagarlo. Non sempre riuscirò, ma di certo non smetterò di riflettere quando non riuscirò a tenere fede a questo principio.
Io per prima mi rendo conto che anche non volendo, commetto questo errore in buona fede: se posso dico sì, soprattutto se chi mi chiede aiuto fa leva sul mio istinto di “fixer”.
Quanto è sostenibile questo nostro voler fare il massimo, per tutti, sempre, senza dare a noi stessi lo stesso amore? Perché di amore si tratta. Non è come quello di coppia o di famiglia, ma è una forma di amore.
Il nostro obiettivo DEVE essere la sostenibilità perché altrimenti non avremo quella carica vitale per sopravvivere alla concorrenza, alla nuova generazione che incalza, al cambiamento, alle sfide alla crisi permanente in cui siamo immersi.
La leadership, a qualsiasi livello, passa anche dal nostro saper dare il passo, saper guidare e ispirare gli altri, insegnare con i fare quotidiano. Leading by example. Detta terra terra, predicare bene e razzolare meglio.
Non lasciamoci spaventare all’idea di riempire prima il nostro bicchiere. Non è quello che ci viene chiesto di fare anche nelle istruzioni di sicurezza in aereo? Prima la mascherina a noi stessi, poi a coloro che dipendono da noi. Potrebbe sembrare brutale, ma è l’opposto: è la chiave della sopravvivenza. Se non aiuto me stessa in prima istanza, come posso aiutare gli altri?
Quando il mio bicchiere straborda (di energia, di tempo, di disponibilità, di pazienza, di tolleranza, di propositività) posso prendere tutto l’esubero e condividerlo con chi credo ne possa beneficiare.
Per quanto questo possa sembrare un ragionamento troppo “umano” è doveroso portarlo in azienda, qualsiasi la nostra professione.
Prima di tutto perché noi siamo la stessa persona. Non abbiamo un bicchiere per casa, uno per l’ufficio, uno per il tempo libero, uno per le passioni, uno per la famiglia allargata, uno per partecipare alla vita della comunità. Magari.
Il bicchiere, purtroppo o per fortuna è sempre quello, che ci portiamo in giro stretto al petto come il bene prezioso e insostituibile quale è.
Occupiamoci del suo contenuto, scegliamo il meglio del meglio. Circondiamoci di persone e ambienti che siano in grado di contribuire al suo riempimento senza solo pretendere da noi una condivisione dovuta.
Ogni goccia che entra è una goccia che avrà un compito importante più avanti, non accontentiamoci della prima goccia che passa…
Essere selettivi con la qualità del contenuto del nostro bicchiere ci porterà inevitabilmente ad essere selettivi con la sua condivisione.
Meglio chiama meglio. Qualità chiama qualità. Eccellenza chiama eccellenza. È una selezione naturale, inevitabile e vitale.
Non affidiamo agli altri il potere di mettere noi stessi al 1° posto, sarebbe una delega rischiosa.
Iniziamo noi, un passo alla volta, a scegliere di onorarci. Una scelta alla volta, un no alla volta.
Un “oggi scelgo me” alla volta.
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